Su DOMUS è uscito un bel articolo che va ad esplorare il cosiddetto “Skateboard Urbanism” nel nostro bel Paese, in particolare in quel di Milano.
Vi riproponiamo qui il testo dell’articolo:
Se il docente di architettura chiede ai propri studenti di progettare un parco urbano, quasi sicuramente la maggior parte di loro disegneranno un parco multifunzionale con annesso skatepark. Lo so per certo perché anche io sono stata uno di quei studenti. Mi guardavo intorno in aula e mi chiedevo se qualcuno lì in mezzo, tra chi insegna e chi impara, fosse davvero in grado di comprendere le esigenze di uno skater. Io conosco questo mondo ma non ne faccio parte, lo osservo e ne rimango affascinata ma non pretendo di capirlo, lo rispetto e mi chiedo: lo Skate Urbanism funzionerà? Mentre i comuni promuovono progetti di rigenerazione urbana con spazi ibridi attrezzati per lo skateboarding, gli skaters continuano a cercarsi da soli i “found spots” dove andare. In una società che vuole istituzionalizzare questa pratica — lo skateboard diventerà uno sport olimpionico ufficiale a Tokyo 2020 — loro continuano a non sentirsi parte di questo processo di omologazione. Sorge spontanea una domanda: stiamo progettando skatepark per chi li userà o per l’idea di un’urbanistica generosa e democratica che accoglie tutti, anche coloro che alla fine non ci hanno mai chiesto di progettargli nulla? Ci sarebbe anche da riflettere su quanto si possa considerare democratico recintare spazi in cui gli utenti possono girare legalmente, negando loro di relazionarsi con lo spazio urbano e andando contro la natura spontanea e ribelle di questa pratica. “Molte persone credono che lo skateboarding sia uno sport e per questo ritengono che sia utile definire un’area in cui farlo”, racconta Alessandro Cesario, uno degli skaters di Milano più conosciuti in Italia e in Europa “ma lo skate è un’altra cosa: è uno stile di vita, è libertà e senso di appartenenza ad una collettività”. Lo skate poi non nasce in luoghi pensati, progettati e costruiti esplicitamente per questa funzione. Nasce negli anni Cinquanta quando i surfisti californiani, nei giorni di mare calmo, andavano nelle piscine vuote a far finta di cavalcare le onde con una tavola a cui avevano aggiunto due ruote. Abbandonate le piscine, lo skateboard ha invaso le città americane, poi europee. Agli skaters basta trovare il giusto “spot”, un posto che considerano interessante per provare i propri “tricks”. Solitamente scelgono luoghi rivestiti da lastre con superficie liscia e dove sono presenti barriere architettoniche, che diventano i loro strumenti per skateare: rampe, scale, panchine, corrimano, fioriere. “Bisogna anche lasciar liberi gli skaters di trovare i loro spot”, dice Cesario “negli skatepark ci fai pratica, ma una volta presa confidenza con la tavola, senti il bisogno di muoverti liberamente in città e di skateare su qualsiasi cosa, dal marciapiede alla scalinata”. Da poco più di un anno vivo accanto alla nuova sede dell’Università Luigi Bocconi, progettata dalle Grafton e inaugurata nel 2008. Qui, da un po’ di tempo, alcuni di loro si ritrovano, nonostante i numerosi richiami del vicinato che ignora totalmente il valore culturale ed estetico di questa pratica, e si esercitano nella piazza antistante l’edificio, anch’essa rivestita in ceppo di gré e attrezzata con una serie di panchine dello stesso materiale. Gli skater tendono infatti ad appropriarsi dello spazio pubblico, non privato — università, piazze, centri commerciali, stazioni ferroviarie, parcheggi — e lo usano temporaneamente. Suggeriscono una fruizione alternativa della città al di là degli interessi civili ed aziendali. Questo uso gratuito dello spazio pubblico è il carattere che lo rende anche uno degli “sport” (anche se nessun vero skater lo considererà mai tale probabilmente) più accessibili, equali e solidali al mondo: è alla portata di tutti, in qualsiasi momento e praticamente in qualsiasi luogo. La città è la grande macchina in cui lo skater si muove godendo di questo spazio condiviso con gli altri cittadini. Alcuni di questi ammirano lo skateboard, alcuni non sopportano proprio di vederli per strada e di sentire il rumore delle loro ruote. Qui sta il più grande paradosso dello Skate Urbanism: lo stiamo facendo per il bene degli skater o dei cittadini infastiditi dalla loro presenza? Se la progettazione di spazi per lo skateboarding consiste nel creare aree recintate in cui farli stare senza turbare la quiete pubblica, la risposta è scontata. Dicono che lo fanno per il loro bene e invece ne stanno solo limitando il grado di libertà. “Gli spazi pubblici urbani vanno progettati per essere vissuti e gli skaters contribuiscono a rendere viva una città, quindi è necessario pensare anche alle loro esigenze”, afferma Diego Garcia Dominguez, KCSM (Key City Skate Manager), invitato da Domus a riflettere sul tema dello Skateboard Urbanism. “Credo sia giusto progettare skatepark, purché in maniera corretta e funzionale. In particolare nella città di Milano la questione di trovare spazi per skateare è abbastanza urgente, rispetto alle altre città europee è indietro di almeno vent’anni”. Alessandro Cesario aggiunge: “a Milano ci sono più bowl e meno street skatepark, bisognerebbe trovare una soluzione che unisca le due cose. Se penso al futuro della progettazione di questa tipologia mi piacerebbe vedere in città skatepark realizzati secondo il modello svedese: strutture semplici con forme adatte per skateare, magari localizzate nei centri urbani”. In un tempo in cui lo skateboard sta iniziando ad acquisire una connotazione positiva, questa pratica deve essere considerata più una risorsa che un fastidio. Lo skateboarding non può e non deve essere un diritto assoluto, e non può avere nemmeno la precedenza sul diritto allo spazio pubblico degli altri. Per trovare il giusto equilibrio è necessario partire da un concetto: se progettiamo skatepark, cerchiamo di farlo per loro. In alternativa al posto di costruire luoghi che non offrono stimoli ai propri utenti, una soluzione interessante potrebbe essere quella di orientare questa comunità verso l’appropriazione di spazi dismessi o proibiti della città. Questo permetterebbe di “rivitalizzare” cadaveri urbani che da anni sono oggetti di studio nelle scuole di Architettura e nei consigli comunali. A questo punto l’appropriazione del suolo pubblico potrebbe diventare qualcosa di estremamente positivo: senza alcuna necessità di gettare colate di cemento o investire un capitale nella progettazione, una comunità di skater può riattivare un luogo apparentemente morto trasformandolo nel loro skatepark. In un’epoca di sensibilizzazione al verde urbano e all’impatto ambientale, forse questa può essere davvero la strada vincente.
Articolo di Bianca Felicori
Articolo originale: domusweb.it